Il cammino delle smart city fra criticità e opportunità
Innovazione che viene dal basso, aree urbane che recepiscono i modelli europei, disponibilità di risorse finanziarie. La strada verso le città intelligenti sembra in discesa. Ma c’è il rovescio della medaglia.
Pubblicato il 21 ottobre 2014 da Gianni Rusconi

Innovazione che viene dal basso, aree urbane che recepiscono i modelli europei, disponibilità di risorse finanziarie. La strada verso le città intelligenti sembra in discesa. Ma c’è il rovescio della medaglia.
C’è chi, come Michele Vianello, ex vice sindaco di Venezia e attuale direttore generale del Vega Parco Scientifico e Tecnologico della città lagunare, non risparmia critiche a un certo modello di smart city. Un modello che a suo dire ha eletto questo fenomeno a facile moda e l’ha considerato, in alcuni casi almeno, “un pretesto per accedere a bandi nazionali ed europei per l’innovazione nelle aree urbane”.
Paolo Testa, direttore di Cittalia (il centro ricerche dell’Anci) e responsabile dell’Osservatorio Nazionale Smart City promosso dalla stessa Anci, appartiene invece al partito degli ottimisti. E propone questa visione: dopo una fase di studio dedicata alla comprensione delle variabili, “sono sempre più numerosi i casi di città che stanno dando fattiva operatività ai progetti e alle idee raccolte”.
Le criticità non mancano e ostacolano il riuso delle soluzioni smart fra i diversi Comuni, ma il primo raffronto fra le azioni intraprese dalle oltre 70 città censite dall’Osservatorio per declinare la smart city a seconda delle specifiche caratteristiche dei contesti urbani è comunque positivo.
L’innovazione urbana made in Italy, spiega Testa, è capace di riprendere i modelli europei in maniera nuova e spesso partecipata, ed è reale. Dai cassonetti intelligenti alle app per segnalare spazi verdi o luoghi da riqualificare, dal bike sharing ai gruppi di acquisto per il solare, dai coworking ai fablab. L’Italia delle smart city, secondo l’Anci, è tutt’altro che ferma al palo.
Un miliardo di euro per le città metropolitane, tre miliardi disponibili dal recupero dei fondi non spesi della programmazione 2007-2014, 540 milioni (70 milioni l’anno fino al 2020) stanziati per l’efficienza energetica delle PA, un miliardo per l’edilizia scolastica.
I numeri con vista sulle smart city che enuncia Gianni Dominici, direttore generale di Forum PA, sono importanti e rappresentano a suo dire “fondi da ben spendere per generare effetti positivi, per abilitare un cambio di paradigma, per attribuire alle città il ruolo di motore di sviluppo”.
Il punto della questione non è, però, l’entità delle risorse disponibili, quanto piuttosto la presenza di capacità progettuale. In una parola di governance, di competenze adeguate per governare le opportunità. Serve, secondo Dominici, lavorare sul concetto di “enabling city”, di città come piattaforma ed ecosistema abilitante. La smart city può essere anche “un nuovo modo di essere istituzione pubblica” grazie alle nuove tecnologie, alla sharing economy, a iniziative di social business e di co-working, agli Open Data”.
Temi che l’Agenda Digitale, purtroppo, non considera tutti come prioritari e, secondo il direttore di Forum PA, per una ragione ben precisa. “L’obiettivo dell’Agenda è quello di modernizzare e digitalizzare la macchina pubblica e i servizi che questa offre; con le smart city si vuole pensare a uno Stato partner, che faciliti il co-design dei servizi in collaborazione con gli stessi utenti”.
Volendo fare una sintesi del “Dominici pensiero” si può dire questo: l’Agenda Digitale è innovazione incrementale, mentre la smart city è innovazione radicale che viene dal basso. I fondi ci sono, i vendor e le tecnologie anche, la progettualità va invece costruita e consolidata. Ma se manca l’endorsement politico diventa tutto più difficile.
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