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Il lavoro è flessibile, anche in Italia. Ma non è un’anarchia

Pubblicato il 11 luglio 2017 da Valentina Bernocco

Il Ddl che regolamenta libertà, diritti e doveri del lavoratore “agile” è passato nelle scorse settimane all'esame del Senato. Stabilendo equità di compenso, diritto alla dotazione tecnologica e limiti di orario.

Equilibrio fra diritti e doveri, flessibilità, orientamento all’obiettivo e, soprattutto, fiducia reciproca fra datore e dipendente, per “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

La declinazione tricolore del concetto di smart working dovrà ispirarsi a questi principi, secondo quanto previsto dal disegno di legge approvato a maggioranza dal Senato lo scorso maggio, a più di un anno di distanza dal varo del Ddl in sede di Consiglio dei ministri.

Pur con tempistiche tipicamente italiane, ci stiamo allineando a una trasformazione che è in atto in tutto il mondo e che poggia, sì, su strumenti tecnologici e su servizi che rendono più semplice lavorare da remoto – pensiamo al cloud computing e alle applicazioni mobili – ma anche su un cambiamento culturale.

Di certo la discussione sul lavoro “flessibile” o “agile” non è nuova, ma per la prima volta alle nostre latitudini ha trovato una più chiara definizione dei propri confini. Si tratta di una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”, e che dunque esce dal tradizionale territorio dei freelance per coinvolgere anche il personale assunto.

L’accordo contrattuale può prevedere “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

 In queste parole sono racchiusi diversi passaggi importanti: con lo smart working l’attenzione si sposta dal timbro del cartellino ai risultati, si ragiona pensando al risultato più che alle ore dedicate all’azienda, e si fa leva sulla tecnologia. .

È quasi banale sottolineare come quest’ultima sia determinante ai fini della produttività da remoto: il sempreverde strumento della posta elettronica oggi si relaziona con le app degli smartphone, con le piattaforme social aziendali (come Workplace by Facebook e Microsoft Teams, per citare due prodotti di recente debutto), con servizi cloud di archiviazione e file sharing.

Abbiamo nominato gli strumenti più comuni e di facile accesso, per lo più gratuiti, ma per le grandi aziende all’elenco si aggiungono i sistemi di telepresenza (allestimenti di terminali, connettività veloce e maxi-schermi, con cui realizzare riunioni virtuali in HD) e soluzioni di lusso come il display gigante Surface Hub di Microsoft o la lavagna interattiva Jamboard di Google.

Nel Ddl si sottolinea come il datore di lavoro sia responsabile del buon funzionamento della dotazione tecnologica assegnata al dipendente (sebbene sia esperienza comune l’utilizzo di strumenti di proprietà individuale, Pc o smartphone che siano). E si specifica che gli incentivi fiscali e contributivi eventualmente riconosciuti dall’azienda valgono anche nei confronti del professionista “agile”.

Lo stipendio e il trattamento normativo sono quelli previsti dal contratto collettivo, senza penalizzazioni rispetto a chi svolga analoghe mansioni in modalità tradizionale. E mentre non esistono vincoli di orario, nemmeno si può pretendere che il lavoratore sia a disposizione sempre: valgono, infatti, i “limiti di durata massima dell’orario giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2016 si potevano contare nel nostro Paese oltre 250mila smart worker nell’ambito dei contratti di lavoro subordinato. Il numero corrisponde a circa il 7% degli impiegati, quadri e dirigenti attivi nello Stivale.

Nonostante la notevole crescita (+40% nell’arco di tre anni) il fenomeno è tutt’altro che assestato o uniforme: il “lavoratore agile” risiede al Nord nel 52% dei casi, nel 38% vive in Centro Italia e solo nel 10% nel Sud; è soprattutto uomo (nel 69% dei casi); per lo più è dipendente di una grande impresa e più raramente di una Pmi. Le realtà enterprise fanno certamente da apripista, dato che il 41% nel 2016 aveva già realizzato progetti di smart working più o meno strutturati.

 

 

Tag: Italia, digitale, smart working

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