La trasformazione digitale che divide i manager aziendali
Le nuove tecnologie cambiano le modalità con cui le imprese operano nel proprio settore. Le figure di business lamentano però la scarsa capacità dell’It nel supportarli mentre i responsabili It non si credono il motore al centro dei processi di cambiamento.
Pubblicato il 10 maggio 2016 da Piero Aprile

Le nuove tecnologie (mobile, cloud, Big Data e social collaboration) cambiano le modalità con cui le imprese operano nel proprio settore. Le figure di business lamentano però la scarsa capacità dell’It nel supportarli in questa fase mentre i responsabili tecnologici non si credono il motore al centro dei processi di cambiamento.
Oltre 150 aziende, di diversi settori e classi dimensionali, e un panel composto da business manager e responsabili It. Questo il campione oggetto di indagine della Digital Business Transformation Survey 2016 condotta da The Innovation Group per capire il reale “status quo” dell’innovazione digitale nelle aziende italiane.
I risultati che emergono dalla ricerca, questo l’assunto generale, dimostrano che i processi di trasformazione stanno impattando profondamente sui modelli operativi e sulle strategie delle aziende. E questo anche perché anche le cosiddette “line of business”, e non solo l’It aziendale, sono consapevoli della portata del cambiamento, della convergenza che sta avvenendo tra mondo fisico e virtuale e delle nuove opportunità competitive che possono sorgere con l’adozione degli strumenti digitali.
Nella maggior parte dei casi (e più precisamente nel 45% se prediamo in considerazione le figure di business manager e nel 54% se guardiamo a quelle dell’It), la digital transformation è vista come la possibilità di ripensare completamente il business dell’azienda in chiave innovativa.
Tale unione di intenti, però, si scontra con una dicotomia non trascurabile: la componente business lamenta una scarsa capacità dell’It interna di supportarlo in questa fase per solo per pochi è in grado di promuovere con forza i nuovi concetti. La maggior parte degli intervistati dell’area tecnica, invece, si sente coinvolta e supporta i processi di cambiamento ma non è il motore al centro di questi.
Come si spiega questa diversa visione delle due anime aziendali? Secondo Tig, tale risultato dipende dal fatto che la funzione It (nelle aziende italiane) è normalmente poco indirizzata all’innovazione e incontra varie difficoltà quando si tratta di rispondere ai bisogni del business con velocità superiori al passato.
E il problema non finisce qui. Solo il 20% dei business manager intervistati ritiene che l’It aziendale sia in grado di trasferire loro le competenze che servono per la trasformazione (anche per problemi legati al linguaggio troppo tecnico utilizzato dalle figure tecniche e non compreso dai colleghi del business) e una buona parte afferma che le competenze richieste non sono disponibili.
Il cambiamento in corso, in altre parole, ha oggi nel business un forte driver ma la cultura informatica trova diverse difficoltà nel processo di propagazione digitale attraverso ogni componente dell’organizzazione.
Chi e che cosa guida il cambiamento
Cloud computing, business analytics, i progetti di customer engagement multicanale, l’enterprise mobility, i Big Data e la social collaboration sono i trend tecnologici, spesso legati e interdipendenti tra di loro, a cui i business manager assegnano un ruolo strategico.
Una priorità cui si guarda in tema di trasformazione digitale è anche l’Internet of Things, che comincia ad avere un peso importante almeno per il 50% delle aziende oggetto di indagine.
Le iniziative di trasformazione, si legge ancora nell’abstract dello studio, vedono diversi attori coinvolti: ai primi posti ci sono il board/il Ceo dell’azienda e l’It aziendale, a seguire aree come il Customer Service, il marketing e l’Hr. Poco coinvolti sono invece ancora i Chief security officer e i security manager, sebbene la sicurezza – osservano in proposito gli analisti - dovrebbe far parte fin dall’inizio alle attività di innovazione digitale, con un modello “security-by-design” che impedisca l’insorgere di successive problematiche.
In tema di cloud computing, dove gli sviluppi in seno alle aziende sono molto rapidi e importanti, si registrano problemi di gestione complessiva dovuti proprio alla velocità di propagazione di questa “tecnologia”.
Circa un quarto (il 24% in media) delle applicazioni business sono oggi posizionate in ambienti cloud (public, private o hybrid) e tale percentuale è prevista diventare il 51% entro i prossimi tre anni.
L’orientamento prevalente è in ottica private cloud per l’infrastruttura as-a-service e per il cloud pubblico per il software as-a-service. Il limite della situazione attuale, invece, sebbene un’azienda su due può contare già oggi su un mix di appoggiate al cloud e alle risorse It tradizionali, è però la mancanza di una strategia di gestione complessiva dei vari ambienti applicativi: solo il 4% del campione, infatti, si dichiara in grado di gestire la portabilità dei workload tra le varie risorse utilizzate, siano in cloud o no.
La mobility è sicuramente una componente matura all’interno dei processi aziendali, e lo conferma il fatto che quasi la metà delle aziende sviluppa sin d’ora app mobili e un ulteriore 20% prevede di farlo entro l’anno. Gli sviluppi in ottica mobile, però, incontrano ancora numerosi problemi e il principale fra questi è costituito dalla sicurezza (non adeguata) degli ambienti finali dati in mano a dipendenti o clienti dell’azienda.
La diffusione di tool di business analytics e di approcci “data-driven” in ogni ambito dell’impresa è infine un elemento critico dei processi di trasformazione in corso: un’It veramente innovativa, fanno notare gli analisti di Tig, dovrebbe essere in grado di portare i vantaggi di un’informazione completa, analitica, business oriented in ogni parte e momento della vita aziendale ma di fatto questo ancora non avviene.
Tali soluzioni, questo l’inciso, hanno un utilizzo circoscritto e vi accedono normalmente percentuali molto basse di dipendenti “esperti” sul tema, tra il 10 e al massimo il 20% degli addetti in due casi su tre.
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