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Industria italiana, la grande occasione ancora da cogliere

Un comparto manifatturiero in salute come, oggi, quello nazionale è ancora relativamente poco maturo nell’adozione delle tecnologie 4.0.

Pubblicato il 03 maggio 2022 da Alberto Taddei

A cinque anni di distanza dall’introduzione di quello che originariamente venne chiamato Piano Industria 4.0, o più popolarmente Piano Calenda, dal nome dell’allora ministro dello sviluppo economico del governo Gentiloni, il bilancio che si può trarre da ciò che è stato messo in campo a più riprese per sostenere la transizione digitale delle nostre imprese è senz’altro positivo. Con alcuni distinguo, ma positivo. 

E questo per almeno tre ragioni. La prima è legata al boost che il comparto manifatturiero nel suo complesso ha sperimentato, in innanzitutto quello dei costruttori di macchine e impianti, con una ricaduta positiva non solo in termini di occupazione e generazione di Pil a livello nazionale, ma anche di bilancia commerciale. Vale infatti la pena di sottolineare come nel mondo l’Italia sia uno dei principali esportatori di macchinari e tecnologie per produrre, con alcuni settori di assoluta eccellenza e leadership globale, come quelli delle macchine utensili e dei robot o sistemi di confezionamento e imballaggio. Con oltre 200mila occupati diretti e una quota di Pil generato del 2,5% (fonte Federmacchine), ben si comprende come la salute di questo comparto sia lo specchio di quella del nostro sistema economico nazionale.

La seconda ragione di ottimismo è legata alla formazione di coscienza che, grazie al dibattito e alla grande comunicazione sviluppatisi attorno ai temi della digitalizzazione, ha portato molti imprenditori e manager, soprattutto in aziende appartenenti alla fascia delle imprese piccole e medio-piccole, a guardare al digitale non come a una moda, ma quale concreta necessità a cui ricorrere per mantenere e anzi aumentare l’efficienza in ottica di competitività futura.

La terza ragione, se così vogliamo dire, può essere considerata la somma delle due. Sappiamo che il parco impiantistico installato in Italia è piuttosto vetusto. Significativa fu l’indagine condotta nel 2015 da Ucimu-Sistemi Per Produrre, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, l’Ice e Unioncamere, che mise in luce per il parco delle macchine utensili installate in Italia un’età media di 13-14 anni. Una età, per sentore derivato da esperienze dirette sul campo, del tutto sottostimata se si considera il totale degli impianti, macchinari e sistemi per produrre installati tout-court nell’industria italiana. Ebbene, è stato anche grazie a queste misure – magari utilizzate anche a solo scopo speculativo economico – che molte imprese hanno potuto compiere investimenti in beni sia materiali sia immateriali, investimenti che altrimenti non avrebbero potuto permettersi.

Quanto vale l’industria 4.0 italiana

Stimare un valore del mercato nazionale dell’industria 4.0 è difficile, quasi impossibile. In molti ci hanno provato e tanti numeri sono stati rilasciati. Secondo il Mise, solamente nel primo anno di entrata in vigore del Piano, ovvero nel 2017, quando ancora si parlava di iper ammortamento, gli incentivi si sono concretizzati in 13,3 miliardi di euro di investimenti tra macchinari e software. Una cifra del tutto realistica, anche perché elaborata sui dati raccolti dai modelli dichiarativi reddituali in cui all’epoca vigeva l’obbligo di indicazione. Secondo l'Osservatorio Transizione Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2021 il mercato nazionale del 4.0 avrebbe sfondato la quota dei 4 miliardi di euro (4,1 per l’esattezza), trainato per l’85% dalle tecnologie It (3,5 miliardi di euro), contro un 15% appannaggio delle tecnologie Ot (0,6 miliardi di euro). Cifra quest’ultima poco plausibile rispetto a quella del software, che appare invece realistica considerando i 7,5 miliardi di euro realizzati dal mercato delle soluzioni software e Ict nel 2020 secondo i dati di NetConsulting cube. Al contrario, se solo si considerano i numeri del comparto rappresentato da Federmacchine, la federazione delle associazioni nazionali dei costruttori di macchine e beni strumentali, gli 0,6 miliardi di euro appaiono una bazzecola. Il consegnato interno nel 2020 è stato infatti pari a 13,6 miliardi di euro, dei quali, per stare cauti, non si sbaglia di certo a dire che almeno il 50% sia stato fornito in “versione 4.0”. E poi va considerato l’indotto economico generato dai fornitori delle tecnologie di automazione digitale: sistemi di controllo, apparati di comunicazione, sensoristica evoluta, eccetera. Un mercato che, secondo le previsioni di Anie Assoautomazione (che tuttavia ancora non ha rilasciato i dati ufficiali), nel 2021 dovrebbe aver registrato un giro d’affari complessivo di circa 5,4 miliardi di euro, di cui cautelativamente si potrebbe stimare un 25-30% dedicato al mercato dei costruttori di macchine 4.0.

Diversi livelli di maturità

Se da un lato è praticamente impossibile riuscire a inquadrare compiutamente dal punto di vista economico il mercato delle tecnologie 4.0, per le evidenti difficoltà di raccolta, analisi e consolidamento dei dati, dall’altro le indagini qualitative sul livello di maturità e di adozione nelle fabbriche italiane restituiscono, invece, dei dati particolarmente significativi. Come quelli che emergono dalla survey realizzata da The Innovation Group insieme a ContactValue, i cui risultati sono stati presentati nel corso dello Smart Manufacturing Summit 2022, la terza edizione, tornata in presenza, del più importante evento convegnistico nazionale in tema di innovazione digitale per l’industria manifatturiera. Come sottolineato in apertura di articolo, sebbene gli aspetti positivi legati al cammino di transizione digitale intrapreso dall’industria siano molti, non mancano alcuni distinguo: e questa survey li ha messi in luce. A parte le grandi imprese – che certamente già da tempo, ben consce delle potenzialità del modello 4.0, avevano trovato naturale implementare modelli organizzativi smart e digitali – nella maggioranza degli altri casi le aziende del settore manifatturiero sono ancora relegate in una fase di sviluppo e di prima implementazione delle tecnologie 4.0 al proprio interno. Non che delle tecnologie smart le imprese non ne vogliano sapere, anzi. È infatti solamente l’11% del campione ad affermare di non usufruirne (per ora, aggiungo). Ciò che emerge è piuttosto un ritardo generale nell’adozione, tant’è che il 40% degli intervistati dichiara di essere attualmente in una “fase pilota”: uno stadio importantissimo per il successivo deployment dei progetti 4.0, ma la cui collocazione ad oggi (a cinque anni dall’introduzione degli incentivi governativi e a ben undici anni dal conio ufficiale del termine “4.0”, avvenuto alla Industrie Messe di Hannover nel 2011) evidenzia un ritardo diffuso. 

Il ruolo dei partner It

Un’ultima nota relativa ai risultati emersi dalla survey riguarda il ruolo svolto dai partner It nei confronti delle imprese manifatturiere. Se, da un lato, il mondo dell’industria riconosce ai propri partner It attenzione verso le esigenze manifestate e conoscenza delle dinamiche settoriali, dall’altro emerge il tema dei costi e, soprattutto, quello dei ritardi, segnalato dalla pressoché totalità del campione. È un tema, questo, che meriterebbe un approfondimento a parte, che in questa sede non è possibile fare, ma che sta a significare molto: innanzitutto la distanza che ancora, nonostante i grandi passi compiuti, separa il mondo Ot da quello It quando si tratta di raccogliere e integrare la babele dei dati generati dal campo negli ambienti software di più alto livello.

 

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