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La calda estate di Google fra Ue, Alphabet e misteri

Mountain View respinge le accuse di posizione dominante dell'Antitrust per il search. Nel frattempo è nata la nuova holding che integrerà tutte le divisioni del gruppo. Ma c'è il nodo del marchio di proprietà di Bmw. E il lancio di Android Pay diventa un giallo.

Pubblicato il 28 agosto 2015 da Gianni Rusconi

Il colosso di Mountain View respinge duramente le accuse di posizione dominante formulate in primavera dalla Commissione Europea. Nel frattempo è nata Alphabet, la nuova holding che integrerà tutte le divisioni della compagnia. Ma c'è il nodo del marchio di proprietà di Bmw. E il lancio di Android Pay diventa un giallo.

Da Alphabet a Bruxelles: come da tradizione, per Google agosto non è sinonimo di vacanza e anche quest’anno il colosso di Mountain View non ha lesinato novità importanti inerenti la propria organizzazione e la propria presenza sul mercato globale.

L’affondo nei confronti della Ue è arrivato improvviso ma non imprevisto, perché il termine ultimo per depositare una replica alle accuse formulate lo scorso aprile dall’organismo antitrust di Bruxelles, relative a ipotetiche azioni anticoncorrenziali da parte della società californiana, scadeva il 30 agosto.

Il senso della presa di posizione di Google si può riassumere così: accuse respinte decisamente al mittente. Il post pubblicato sul blog ufficiale di BigG a firma di Kent Walker, Senior Vice President & General Counsel della società, ha del resto un titolo molto indicativo: “migliorare la qualità non è anti-concorrenziale”.

Google difende la propria vocazione ad innovare ma i toni della risposta lasciano presagire che a Bruxulles le tenteranno ora tutte per mettere la compagnia americana dietro la lavagna con l’addebito di una mega multa da sei miliardi di dollari.

Ma cosa ha scritto Walker nel suo post? Ecco i passaggi più significativi: “Google si è sempre impegnata per migliorare i propri servizi, creando nuovi modi per fornire risposte migliori e mostrare annunci più utili…. Abbiamo preso seriamente le questioni sollevate nella comunicazione degli addebiti della Commissione Europea, secondo cui le nostre innovazioni sarebbero anticoncorrenziali… ma riteniamo che tali affermazioni non siano corrette”.

E ancora: “le accuse sostengono che mostrando gli annunci a pagamento dei commercianti, Google devii il traffico da altri servizi di shopping comparativo. Ma la comunicazione non supporta tale affermazione, non tiene in considerazione i significativi vantaggi per consumatori e inserzionisti e non indica una chiara base giuridica per collegare tali affermazioni alla soluzione proposta… La nostra risposta fornisce prove e dati che dimostrano l'infondatezza delle questioni sollevate nella comunicazione. Abbiamo utilizzato analisi di traffico per replicare alle affermazioni secondo cui i nostri annunci e i nostri risultati organici specializzati avrebbero leso la concorrenza impedendo agli aggregatori di shopping di arrivare ai consumatori. Dati economici rilevati su un arco temporale di oltre un decennio, ampia documentazione e le dichiarazioni dei ricorrenti confermano che il settore della ricerca di prodotti online è altamente competitivo”.

La missiva di Google si concentra quindi sugli effetti generati dal proprio operato in chiave e-commerce: “…la comunicazione non è corretta perché non considera l'impatto di servizi di shopping online come Amazon ed eBay, che si sono ritagliati una fetta di traffico molto più grossa rispetto agli annunci di Google Shopping. Da parte nostra abbiamo indirizzato oltre 20 miliardi di clic gratuiti verso gli aggregatori di shopping, nei Paesi interessati dalla comunicazione della Commissione, con un aumento del 227% del traffico organico”.

L’epilogo della difesa di Mountain View è quindi esplicito: “…Google Shopping non è anticoncorrenziale. Al contrario, mostrare annunci basandosi sui dati strutturati forniti dai commercianti migliora chiaramente la qualità degli annunci e rende più semplice per i consumatori trovare ciò che stanno cercando. I dati degli utenti e degli inserzionisti confermano l'apprezzamento per questi formati. Non si tratta di favorire, ma di dare ai nostri clienti e inserzionisti ciò che trovano più utile”.

Il motore di ricerca quindi non si tocca, questo l’appello neppure troppo velato di Google alla Ue, perché come scrive ancora Walker “è progettato per fornire i risultati più pertinenti e gli annunci più utili per ogni query ed è nel nostro interesse fornire risultati di alta qualità e annunci che conducano le persone a ciò che stanno cercando. Più pertinenti sono gli annunci, meglio collegano potenziali acquirenti a potenziali venditori, generando così più vantaggi per tutti”.

L’infocommerce alimentato dal motore di Google è in buona sostanza uno strumento positivo (ovviamente secondo BigG) e rispetta la libera concorrenza. La Ue, sempre a detta di Google, è giunta a conclusioni “errate da un punto di vista dei fatti, sotto l’aspetto legale e di quello economico. Ora la palla passa alla Commissione, che da parte propria ha aperto una seconda indagine sempre a carico della compagnia e relativa al sistema operativo Android, altro asso nella manica di Google suscettibile di “posizione dominante”.

 

 

La nuova società e il lancio del borsellino elettronico nei fast food

Le multiformi attività di BigG hanno trovato a cavallo di Ferragosto un nuovo “dominio”, Alphabet. Un’azienda che è una collezione di aziende, contenente – al pari dell’alfabeto – tante “lettere”. La vecchia Google Inc. non scompare ma diventa appunto una componente, la principale, della nuova società: qui resteranno i core business del motore di ricerca, della pubblicità e dei servizi online, come Maps, Now e YouTube, ma anche i sistemi operativi Android e Chrome OS.

Attività che oggi rappresentano la quasi totalità dei 66 miliardi di fatturato raccolti nel 2014 (basti pensare che l’89% del giro d’affari deriva dal solo advertising). Il risultato è un’azienda più snella che opererà come sussidiaria di Alphabet e che sarà guidata da Sundar Pichai (già vice president di Android, Chrome e App) nel ruolo di Ceo.

Per lui, nel blogpost che ha annunciato la riorganizzazione, Larry Page ha speso parole entusiastiche: “Mi sento molto fortunato ad avere una persona di tale talento a capo di una Google un po’ dimagrita, e questo mi permette di avere più tempo per continuare a scalare le nostre aspirazioni”.

Che sono, anche, quelle di tutto ciò che non è core business: le automobili driverless, i dispositivi indossabili, la telefonia, la missione di una copertura Internet globale attraverso le mongolfiere l’innovazione per il settore medico e altro ancora. Progetti su cui gli investitori avevano sollevato alcune perplessità a causa degli elevati costi e del non chiaro ritorno economico immediato.

Sempre nel blogpost, Page cita infatti fra gli obiettivi della riorganizzazione il “miglioramento della trasparenza e della supervisione su ciò che facciamo”, ma parla anche di maggiore libertà d’azione “perché possiamo gestire in modo indipendente attività che non sono strettamente legate fra loro”. Il modello manageriale sarà quello di “avere un amministratore delegato forte a capo di ciascun business, con me e Sergey a loro disposizione in caso di necessità”.

"La G sta per Google”, sottolinea il Ceo. “Come io e Sergey abbiamo scritto undici anni fa, Google non è una società convenzionale. E non vogliamo che lo diventi”. Alla loro nascita, molti dei progetti apparivano come delle “follie”, che però a distanza di anni sono diventati servizi con miliardi di utilizzatori, quali Google Maps, YouTube, Chrome e Android. “Non ci siamo fermati”, ribadisce Page.“Ancora oggi cerchiamo di fare cose che agli sembrano folli, ma di cui siamo entusiasti”.

All’interno di Alphabet, se “Google è la G”, come scrive Larry Page, le altre lettere saranno Google X e i Life Sciences (da cui sono nati di Google Glass e il prototipo di lenti a contatto smart), Calico (California Life Company, società che si occupa di ricerca contro l’invecchiamento e le malattie senili), Google Fiber (per i servizi Internet a banda ultralarga), Google Auto (per le vetture a guida autonoma) e ancora Google Ventures e Capital, rispettivamente la società di venture capital e di private equity del gruppo.

La nuova holding sarà guidata dai due fondatori di Google, e più precisamente da Larry Page in qualità di amministratore delegato e da Sergey Brin in qualità di presidente. Il recente acquisto, ex di Morgan Stanley, Ruth Porat rimarrà direttore finanziario di Google Inc e anche dell’intero gruppo.

Sulla scelta del nome “Alphabet”, tornando al botto ferragostano che ha sancito la nuova vita di BigG, non sono mancate le polemiche. O meglio. Il marchio in questione appartiene a Bmw (Alphabet Fuhrparkmanagement, filiale della casa tedesca, è una società che si occupa di leasing e car sharing) e il colosso tedesco non ha perso tempo nell’avvisare quello californiano che non ci sono i presupposti per il suo passaggio di mano.

Cosa succederà ora? L’ipotesi di azioni legali non è da escludere perché in gioco c’è la guerra per accaparrarsi le preferenze degli automobilisti delle auto connesse. Bmw non fa parte del consorzio Open Automotive Alliance che ha l’obiettivo di diffondere la piattaforma Android Auto e sempre Bmw ha da poco acquistato (in compagnia di Audi e Daimler) Here, la succursale di Nokia che opera nei servizi di mapping, diretta rivale di Google Maps. Vedremo.

Intanto c’è un secondo giallo che sta caratterizzando l’estate di Google ed è quello relativo ad Android Pay, la nuova piattaforma di mobile payment.

Il servizio non è stato lanciato il 26 agosto come inizialmente previsto, anche se il suo arrivo dovrebbe essere ormai imminente. A inizio settimana si era sparsa la voce che il servizio di pagamento mobile sviluppato da Google per i dispositivi Android avrebbe fatto la sua comparsa presso i ristoranti McDonald’s statunitensi.

Un rumor che sembrava avere basi solide, in quanto alcuni siti avevano pubblicato online delle immagine di informative interne, diffuse dalla catena di fast food ai propri dipendenti per avvisarli delle novità in fatto di pagamenti elettronici. E invece di Android Pay nessuna traccia. A pesare sulla veridicità della notizia, comunque, il fatto che l’informativa di McDonald’s riportasse anche il lancio di Samsung Pay per il 21 agosto: “bufala” clamorosa, in quanto la casa sudcoreana dovrebbe arrivare sul mercato Usa solo a fine estate.

Da qui, la possibilità che si trattasse di un avviso datato, fatto circolare sui siti troppo tardi. E così probabilmente è stato. Ma, come detto, la comparsa ufficiale del servizio di Big G in alcune grandi catene Usa è ormai questione di giorni, se non di ore. Ad alimentare l’ipotesi, una serie di immagini “carpite” da un altro fast food, Subway, che ha titolato in questo modo una newsletter rivolta ai clienti: “Android Pay è ora disponibile presso Subway. Puoi pagare utilizzando il tuo dispositivo Android con un semplice tocco di dita!”.

Ma, anche in questo caso, il servizio non è effettivamente disponibile. Cliccando sul link inserito nella newsletter, si viene trasportati sulla pagina Web ufficiale di Android Pay, che viene però indicato ancora come “in arrivo”.

La confusione, come si può vedere, regna sovrana. Google probabilmente ne è solo contenta, in quanto tutte queste indiscrezioni non fanno altro che alimentare l’attesa e portare Android Pay alla ribalta delle cronache. Con tutta probabilità, comunque, entro pochi giorni i consumatori statunitensi dotati di smartphone con tecnologia Nfc potranno acquistare in piena libertà in molte catene, dimenticandosi dell’amata carta di credito.

Hanno collaborato Valentina Bernocco e Alessandro Andriolo

 

Tag: tecnologia, MERCATI, Android, Google

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