La rivoluzione digitale ancora incompresa in Italia
La trasformazione nel post pandemia ha i tratti di un cambiamento epocale, ma la sua vera portata non è ancora stata capita del tutto.
Pubblicato il 04 gennaio 2022 da Roberto Masiero

“Il digitale non è la ciliegina: il digitale è la torta!”. Così, durante la sua presentazione al Digital Italy Summit organizzato a Roma da The Innovation Group, Luciano Floridi alludeva all’importanza del digitale in tutte le dimensioni dell’economia e della società di oggi. Il filosofo ed esperto di etica dell’informazione (professore di Filosofia ed Etica dell'Informazione all'Università di Oxford e professore di Sociologia della Cultura e della Comunicazione all’Università di Bologna) sottolineava però anche che molti capi d’impresa oggi sono ancora convinti che il digitale sia la ciliegina. Così come molti ritengono di poter fare i conti con la transizione ecologica semplicemente con una spolverata di green washing. Insomma, non si è ancora capito completamente quale sia la potenza della rivoluzione digitale e che è qui che sta il profitto. A tutti questi temi il Digital Italy Summit ha riservato un repentino risveglio.
Da tanto tempo si parla di “cambio di paradigma”; ma i germi del cambiamento erano lì da parecchio, ed erano anni che i più avveduti avevano cominciato a introdurre cambiamenti profondi, a ridisegnare prodotti, processi, modi di produzione, modelli di business grazie al digitale. È stata la pandemia a far precipitare il cambiamento, a imprimervi un’accelerazione incredibile. E così, mentre prima si passavano mesi a litigare su come allocare qualche miliardo di euro, ora ci troviamo improvvisamente di fronte alla sfida di investire efficientemente, in tempi brevi, 230 miliardi: è questo il segno del cambio di paradigma. E non si possono utilizzare i metodi e i criteri derivati dall’esperienza del Novecento: affrontare una trasformazione radicale fingendo che nulla sia avvenuto è la ricetta per il disastro.
Le opportunità della trasformazione digitale
Quali, dunque, alcune delle idee che sono emerse dalla tre giorni del Summit? Nel suo intervento, il professor Floridi ha innanzitutto chiarito che la nuova sfida non è l’innovazione digitale, ma la governance del digitale. Oggi un’azienda che abbia fondi sufficienti compra tecnologia per l’innovazione digitale, ma il problema vero è che cosa farci: in che direzione vogliamo andare come società, come azienda, come ambiente complessivo? Come governare l’integrazione di dati dai formati eterogenei, di database che non si parlano tra loro, di sistemi informativi frammentati e di centri di potere autoreferenziali? Una seconda verità da considerare è che la rivoluzione digitale è una rivoluzione ambientale, e non massmediatica. Non è una questione di comunicazione, ma investe nel profondo la natura dell’ambiente informazionale in cui viviamo. Ma questo ambiente quanto è fragile o robusto? Quanta ecologia di questo ambiente vogliamo mettere in campo?
Dobbiamo metterci in testa che andiamo verso un mondo ibrido, in cui la dicotomia online/offline è ormai solo un vecchio reperto novecentesco. In terzo luogo, bisogna riflettere sul fatto che l’innovazione digitale è di design: non è né invenzione né scoperta. Il design significa mettere insieme vincoli e risorse per risolvere un problema, in vista di un fine. Il design teso all’innovazione investe le istituzioni, i modelli di business, i servizi e i prodotti, sfruttando quella proprietà unica del digitale di scollare e ri-incollare la realtà. Significa utilizzare il meglio che l’umanità abbia mai prodotto, nella sua capacità creativa, per risolvere problemi senza basarsi su soluzioni vecchie. E dunque il nostro Paese, culla del design industriale, ha davanti un’occasione per estendere la propria capacità creativa al mondo delle istituzioni, dei nuovi business model, delle necessarie innovazioni sociali nel campo del welfare.
Il “blu” amico del “verde”
Il blu (del digitale) è amico del verde(dell’ambiente), per tre motivi: perché facciamo di più con meno, perché possiamo fare cose diverse da quelle che abbiamo fatto prima, e perché possiamo fare cose che prima non potevamo proprio fare. E queste tre caratteristiche consentono al digitale di scavalcare problemi che l’analogico non era in grado di gestire. È il mondo delle “twin transformation”, in cui la rivoluzione digitale, più matura, può contribuire potentemente allo sviluppo della transizione ecologica. In un’altra efficace immagine, Floridi ha spiegato che dai “colletti bianchi” passeremo ai “colletti verdi”, cioè andremo da un concetto di consumismo a un concetto di cura. La prossima fase indotta dallo sviluppo del capitale vedrà il passaggio da un capitalismo del consumo a un capitalismo della cura, nel quale le risorse economiche coinvolte sono immense. Oggi alcuni di questi concetti sono già patrimonio consolidato delle aziende e delle organizzazioni più avanzate; altri hanno un sapore ancora pionieristico, ma siamo convinti che negli anni prossimi li vedremo affermarsi diffusamente.
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