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Open source, bene pubblico e motore di crescita per l’Europa

La Commissione Europea ha pubblicato un rapporto dal quale si evince una correlazione diretta fra peso delle tecnologie aperte e Pil. L’Italia è fra i paesi a più alto tasso di utilizzo nel settore pubblico.

Pubblicato il 08 settembre 2021 da Sandro Castro

Le imprese appartenenti all’Unione Europea hanno investito circa un miliardo di euro nelle tecnologie open source nel 2018, generando un impatto stimato fra i 65 e i 95 miliardi di euro per l’economia continentale. Il dato emerge da uno studio appena reso disponibile dalla Commissione Europea e realizzato dall’istituto Fraunhofer per la ricerca sui sistemi e l’innovazione e dal gruppo di riflessione OpenForum Europe.

Dunque, il peso dell’impiego di tecnologie aperte sembra avere una correlazione stretta con la crescita economica dell’Ue, tant’è vero che gli analisti stimano come un aumento del 10% di questo valore potrebbe far salire dello 0,4-0,6% all’anno il Pil (un equivalente di circa 100 miliardi di euro), permettendo anche la creazione di 600 nuove start up. Gli autori hanno sottolineato come si tratti ormai di un vero e proprio bene pubblico e anche di un elemento fondante della sovranità dell’It e dell’autonomia strategica europea.

Lo studio ha analizzato tanto il settore pubblico quanto quello privato, esaminando anche le realtà di ogni singolo paese. Nel primo caso, sono stati considerati criteri come l’esistenza di una governance globale in materia di open source, l’avviamento di una strategia costruita sul software libero, un sourcing specifico e così via. Qui l’Italia appare ben posizionata, con uno score del 63% (ricavato dal peso dei criteri utilizzati), di poco dietro la Francia, ma davanti a Uk, Spagna, Stati Uniti e Cina, per fare qualche nome. Nell’industria privata, sono state misurate la presenza di una strategia di sviluppo industriale dell’open source, così il recepimento di leggi e normative che promuovano lo sviluppo e l’adozione di questo tipo di progetti. L’Italia ha raggiunto il 13% (le medie sono tutte più basse rispetto alla Pa), dietro a diverse realtà nazionali, fra le quali spiccano la Corea del Sud (76%), la Cina (56%) e la Francia (29%).

Elementi critici e raccomandazioni

La ricerca ha evidenziato numerose diversità fra Europa e Stati Uniti. Da noi, sono soprattutto le piccole imprese a contribuire di più alla causa dell’open source (nell’ordine della metà del peso complessivo), mentre oltre oceano contano di più le strategie di grandi imprese come quelle del cosiddetto Gafam, che hanno fondato il loro successo economico sul vasto corpus di codice libero disponibile e in costante miglioramento. In Asia-Pacifico, in compenso, i governi hanno spinto soprattutto sul settore privato, attraverso incentivi, sostegni e partnership, integrando la logica aperta nella politica industriale.

Gli autori del rapporto non lesinano anche critiche soprattutto ai governi e alle istituzioni pubbliche dell’Ue, che hanno sostenuto l’open source a ondate (all’inizio del millennio e nella metà del decennio scorso), ma mostrano nell’insieme politiche in ambito pubblico rivelatesi spesso infruttuose.

Alla luce di quanto emerso, sono state fornite anche alcune raccomandazioni. Innanzitutto, occorre mettere a punto e promuovere una politica industriale dell’open source, alla quale aggiungere una rete, finanziata dalla Commissione, dei venti Open Source Project Offices, per sostenere lo sviluppo e l’utilizzo di tecnologie aperte. Inoltre, viene sollecitato un finanziamento "sostanziale" per la R&D di progetti open source attraverso programmi esistenti (come Horizon Europe) e nuove iniziative. Infine, appare necessario rafforzare l'inclusione del software open source negli appalti pubblici e promuovere l'autonomia digitale e la sovranità tecnologica sia per l’hardware che per il software.

 

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