15/03/2022 di Valentina Bernocco

Il digitale, motore e attore della sostenibilità

L’impatto dei data center e dell’industria hardware, da un lato, il ruolo del cloud e dei software dall’altro. Le due facce della medaglia nel complesso rapporto tra digitale e sostenibilità.

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La parola sostenibilità è ormai sulla bocca di tutti. Protagonista non solo di molte agende politiche, nazionali e internazionali, ma anche delle strategie di medio e lungo termine delle aziende, cui si affiancano più estemporanee azioni “ecologiche” che fanno bella figura nei bilanci di sostenibilità e nelle comunicazioni degli uffici stampa. Non fanno eccezione le aziende dell’Ict: dai grandi colossi alle startup, oggi la sostenibilità è entrata di peso nelle strategie di marketing e, quando c’è sostanza, anche nelle strategie di trasformazione e crescita nel lungo periodo. La digitalizzazione, il Web e il cloud computing hanno, sì, contribuito a ridurre molte abitudini inquinanti, e in particolare negli ultimi due anni le piattaforme per la collaborazione a distanza hanno dimostrato che in molti casi è possibile lavorare da casa, evitando le trasferte quotidiane. Questi contributi, messi su un piatto della bilancia, sono però ben poca cosa se dall’altra parte c’è il peso inquinante dei grandi data center, un esercito che si ingrandisce di anno in anno.

La grande “fame” di energia

In uno studio del 2019 la ricercatrice Emma Strubell e il suo gruppo di lavoro denunciavano la “fame” di energia delle applicazioni di intelligenza artificiale più evolute: stando ai loro calcoli, il training di un algoritmo di comprensione del linguaggio può generare 284 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quanto prodotto in media da un’automobile nel suo intero ciclo di vita. L’allenamento di Bert (Bidirectional Encoder Representations from Transformers, modello introdotto nel 2019 nel motore di ricerca di Google) ha liberato nell’atmosfera una quantità di CO2 pari a quella di un volo aereo di andata e ritorno tra New York e San Francisco. E se anche volessimo disinteressarci del potere inquinante dell’intelligenza artificiale, il più ampio problema del cloud computing non può essere certo ignorato, perché il cloud è entrato nella vita professionale e personale di tutti. Nei calcoli della Commissione Europea, l’industria dei data center assorbiva nel 2018 il 2,7% dei consumi mondiali di elettricità e senza un’adeguata strategia di contrattacco nel 2030 la percentuale salirà al 3,2%. Secondo uno stima della International Energy Agency, organizzazione intergovernativa fondata dall’Ocse, nel 2020 su scala globale le infrastrutture di elaborazione dati hanno utilizzato un valore compreso tra 200 e 200 TWh di elettricità, ovvero l’1% del fabbisogno energetico mondiale. Le reti di trasmissione dati, Internet compresa, hanno consumato invece tra i 260 e i 240 TWh, ovvero fino all’1,4% del fabbisogno di elettricità dell’intero Pianeta. E a queste due attività, naturalmente, si aggiungono la produzione di hardware, la logistica e il problema dello smaltimento dei rifiuti elettronici.
 

Una lotta contro il tempo

In questa duplicità, di colpe e di meriti, si gioca il ruolo del digitale nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per la lotta al cambiamento climatico. Che è innanzitutto una lotta contro il tempo: secondo uno studio del gruppo intergovernativo Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), presentato lo scorso novembre durante il summit Cop26 delle Nazioni Unite di Glasgow, su scala mondiale emissioni anidride carbonica, metano e biossido di azoto raggiungono i 40 miliardi di tonnellate all’anno. Per limitare a 1,5 gradi il surriscaldamento globale sarà tassativo non superare i 500 miliardi di tonnellate di emissioni da qui al 2050, mentre senza azioni di contenimento saremo condannati a un aumento medio della temperatura di 3,3 gradi rispetto ai livelli di fine Ottocento (l’anno 1880). Le quattro azioni di transizione ecologica emerse da Cop26 sono lo stop alla deforestazione, l’affermazione dei veicoli elettrici, l’accelerazione dell’abbandono del carbone e gli investimenti in energie rinnovabili, e nel terzo e quarto punto il settore dell’Ict è chiaramente coinvolto.

La marcia verso il data center “verdi”

Da più di un decennio i grandi colossi proprietari di data center hyperscaler hanno cominciato a puntare sulle energie rinnovabili, o acquistando energia eolica, solare idroelettrica o addirittura realizzando impianti (fotovoltaici, in particolare) di proprietà. Tant’è che l’ubicazione geografica dei nuovi data center è spesso stata scelta considerando le risorse green (oltre che il costo dell’energia) disponibili in una data regione. Nemmeno l’uso degli algoritmi di intelligenza artificiale tesi a migliorare l’efficienza energetica è troppo nuovo: Google, per esempio, ha sviluppato il primo progetto di questo tipo nel 2016. Ma oggi, a distanza di pochi anni, c’è un senso d’urgenza ben diverso. Solo nel 2021 in Europa gli sforzi individuali dei provider di servizi cloud hanno assunto una forma collettiva e sistematica con un accordo di autoregolamentazione, il Patto per la neutralità climatica dei data center: il suo fine è rendere le infrastrutture collocate in Europa neutre dal punto di vista climatico entro il 2030. Hanno sottoscritto l’impegno Amazon Web Services (Aws), Google, Aruba, Ovhcloud e una lista di altri cloud provider, insieme ad associazioni come Cispe (Cloud Infrastructure Services Providers in Europe) ed Educa (European Data Centre Association). Per arrivare al traguardo, dovranno provare l'efficienza energetica con obiettivi misurabili, acquistare energia al 100% priva di carbonio, dare priorità alla conservazione dell'acqua, riutilizzare e riparare server e sviluppare sistemi di riciclo del calore. I progressi delle aziende saranno monitorati dalla Commissione Europea due volte l'anno.

Bisogna sottolineare che oggi nel conteggio della “neutralità climatica” vale anche l’acquisto di energia rinnovabile, quindi un data center può essere considerato a “impatto zero” anche se impiega elettricità, purché l’azienda compensi quei consumi con progetti green di peso equivalente. In futuro si dovrà fare di più. Google, per esempio, si è impegnata ad arrivare al 2030 alimentando in toto i propri data center con energia pulita, senza emettere gas serra. Per lo stesso anno Microsoft punta addirittura a essere “carbon negative”: dovrà, cioè, non solo ridurre le proprie emissioni di CO2 ma anche contribuire attivamente a eliminare gas inquinanti dall’atmosfera. Lo farà con attività di rimboschimento, stoccaggio del carbonio, assistenza a fornitori e clienti (affinché possano a loro volta ridurre il proprio impatto ambientale) e soprattutto con investimenti in nuove tecnologie per la cattura e la rimozione del carbonio.  

Un promotore di sostenibilità

Il percorso verso una maggiore sostenibilità, almeno nelle intenzioni, potrà arrivare a coinvolgere tutta la “filiera” del cloud computing, dal fornitore al cliente. Un recente sondaggio eseguito da S&P su 825 operatori di data center multitenant ha evidenziato che il 43% di essi ha un progetto di miglioramento della sostenibilità degli impianti. Appena il 3% ha dichiarato che, tra i propri clienti, nessuno o quasi nessuno presta attenzione agli impegni di miglioramento dell’efficienza e della sostenibilità, specificati all’interno dei contratti di fornitura. Il tempo saprà dire se alle dichiarazioni d’intenti corrisponderanno i fatti. Di certo, è chiaro fin da ora che il ruolo del digitale nella lotta al cambiamento climatico è molto più ampio. Difficile stilare un elenco esaustivo, ma alcuni esempi rendono l’idea di quel che già si comincia a fare. Mettendo insieme analisi dei dati, intelligenza artificiale, sensori e oggetti Internet of Things si possono ottenere efficienze, un uso più oculato delle risorse e un taglio degli sprechi nei campi più disparati, dall’agricoltura ai trasporti, dalla grande distribuzione organizzata alle attività di smaltimento dei rifiuti e riciclo. Nella meteorologia, poi, oltre agli elementi citati entrano in gioco i grandi sistemi di supercalcolo, i “cervelloni” dell’High Performance Computing, che consentono di creare modelli predittivi per la previsione di eventi climatici. In questo campo eccelle per esempio Ibm, pioniera del computing cognitivo con la propria piattaforma “Watson” e dal 2015 proprietaria della società di previsioni e servizi meteo The Weather Company. Tra l’altro oggi il cloud computing mette a disposizione delle aziende una capacità di calcolo e di storage virtualmente illimitata, abbassando la soglia d’accesso ad applicazioni di questo tipo.
Mettendo insieme tutte queste iniziative e la più generale trasformazione degli stili di vita e dei modelli di lavoro, che risultati possiamo aspettarci, realisticamente, nel lungo periodo? Un modello previsionale sviluppato da The European House – Ambrosetti stima che tra il tra il 2020 e il 2030 il digitale contribuirà a una riduzione delle emissioni di gas serra pari a un massimo del 10% rispetto ai livelli del 2019. Significherà un taglio di 37 milioni di tonnellate di CO2 annue da qui al 2030. Secondo questa previsione, nel decennio l’impatto del digitale sulla transizione verde sarà pari a quello delle energie rinnovabili. Per quanto riguarda le conseguenze della digitalizzazione sulle aziende, gli effetti più importanti saranno la generale diminuzione degli spostamenti (citata dal 71,2% del campione dello studio), la dematerializzazione dei processi e dunque una riduzione del consumo di carta (68,4%), una più efficiente gestione delle operations (50,9%) e l’incremento delle attività di monitoraggio e calcolo dell’impatto ambientale (49,1%). Proprio in quest’ultimo ambito si inserisce il progetto Cloud for Sustainability di Microsoft: si tratta di uno strumento software di analisi dei dati, accessibile tramite cloud, che è attualmente in fase di lancio e che a regime permetterà ad aziende di ogni settore di tracciare e rendicontare le proprie emissioni inquinanti, per poi fissare dei realistici obiettivi di sostenibilità. Insomma, non è facile capire se l’industria del digitale sia più nemica o amica dell’ambiente, oggi come oggi. Molte contraddizioni macchiano l’immagine di tecnologia “ecologista” che molte aziende, grandi e piccole, cercano di promuovere. Ma quel che è certo è che il digitale ha sulle proprie spalle una responsabilità enorme nella planetaria lotta al cambiamento climatico.

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