Federico Faggin, scienziato e innovatore di fama internazionale, non è solo il pioniere del primo microprocessore e tra gli artefici della rivoluzione digitale, ma è oggi anche una delle voci più lucide e originali nel dibattito sull’intelligenza artificiale. La sua posizione, al tempo stesso radicale e fondata su anni di studio scientifico e filosofico, mette in discussione molte delle convinzioni dominanti in tema di AI. In particolare, Faggin rifiuta l’idea che i sistemi artificiali possano sviluppare una vera coscienza o che possano essere assimilati, anche in prospettiva futura, alla mente umana.
Questa convinzione è maturata, secondo quanto ha raccontato, da un evento illuminante avvenuto nell'ormai lontano 1990 e che lo ha portato a una nuova consapevolezza attraverso un percorso durato 30 anni.
Per comprendere il nucleo del suo pensiero, è essenziale distinguere tra intelligenza come capacità di elaborazione simbolica e coscienza come esperienza soggettiva. I sistemi di AI, sostiene Faggin, sono strumenti estremamente sofisticati basati su modelli statistici e reti neurali artificiali, in grado di simulare comportamenti intelligenti ma privi di qualsiasi forma di esperienza interiore. Anche i più evoluti Large Language Models o agenti generativi non comprendono davvero ciò che producono: rispondono sulla base di correlazioni probabilistiche apprese da enormi quantità di dati, ma non hanno consapevolezza del significato delle parole, né intenzionalità.
L’errore di fondo: confondere simulazione e realtà
Secondo Faggin, gran parte dell’attuale entusiasmo (o timore) nei confronti dell’AI deriva da una confusione tra ciò che appare intelligente e ciò che è consapevole. Una macchina può comportarsi in modo credibile, simulare emozioni, persino comporre musica o scrivere codice, ma resta un sistema deterministico, privo di coscienza. Questa distinzione non è solo accademica: ha profonde implicazioni etiche e sociali. Trattare l’AI come se fosse senziente significa attribuirle un valore e una responsabilità che non può avere, spostando l’attenzione dalle vere sfide: il controllo umano, la trasparenza dei processi, l’impatto sugli equilibri economici e professionali.
Per Faggin, la coscienza è irriducibile a un algoritmo, perché si basa su una qualità dell’esperienza che sfugge alla logica computazionale. È un fenomeno emergente, secondo alcuni approcci filosofici, ma per Faggin ha una dimensione ancora più profonda: è ciò che rende l’essere umano capace di discernimento, empatia, etica. La riduzione dell’uomo a “macchina biologica” è, a suo avviso, una delle più grandi semplificazioni del pensiero contemporaneo, un riflesso di una cultura tecnocratica che rischia di smarrire la propria umanità.
La tecnologia deve restare al servizio dell’uomo
L’intelligenza artificiale può essere una risorsa straordinaria, ma solo se viene orientata da una visione umanistica e consapevole. In questo senso, Faggin si discosta nettamente sia dall’entusiasmo tecno-utopista di chi vede nell’AI la soluzione a tutti i problemi umani, sia dal catastrofismo apocalittico che immagina un futuro dominato dalle macchine. Il vero rischio, spiega, non è che l’AI ci distrugga, ma che l’uomo deleghi ad essa il proprio potere decisionale, rinunciando alla responsabilità morale e alla capacità di giudizio.
La sfida non è tecnologica, ma culturale: si tratta di preservare il primato dell’essere umano in un mondo in cui la tecnologia diventa sempre più pervasiva. L’AI deve essere pensata come uno strumento per amplificare l’intelligenza e la creatività umana, non come una mente alternativa. Solo così sarà possibile mantenere un equilibrio tra progresso e dignità, tra automazione e significato.
Faggin invita ingegneri, scienziati, imprenditori e decisori politici a non cedere alla tentazione di considerare la coscienza come un sottoprodotto della complessità computazionale. Al contrario, propone un nuovo paradigma in cui la tecnologia viene sviluppata con piena consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi scopi. La sua posizione, maturata anche attraverso esperienze personali di introspezione e ricerca interiore, si traduce in un appello a ripensare il rapporto tra uomo e macchina, tra razionalità e intuizione, tra progresso e saggezza.
Purtroppo, Faggin non si dilunga sull'origine del suo ragionamento filosofico, enunciando come "postulata" perché ovvia la consapevolezza nel cervello umano e non trasferibile altrove. Questo può suonare rassicurante, ma non permette di analizzare granché delle conseguenze future, né di trarre conclusioni che vadano oltre la semplice opinione. Speriamo in una seconda illuminazione che porti ad affermazioni di base più verificabili.